In questo momento di emergenza sanitaria il vescovo Mariano Crociata ha inviato alla sua comunità una lettera sulla fede in tempi di “distanziamento sociale”.
“La comunità ecclesiale pontina – ha detto anche – continua a pregare per le persone colpite dal virus e per i medici, gli infermieri e tutti gli altri operatori che a vario titolo si dedicano alla cura dei malati e ad arginare la diffusione del virus”.
Ecco il testo della missiva:
“Cari fratelli e sorelle,
dopo la concitazione di questi giorni, desidero tornare a dialogare con voi per accompagnare, con la riflessione che vi propongo, un periodo che non sarà breve, di cui non è prevedibile la durata e che prenderà di sicuro l’intera Quaresima.
Il nostro primo pensiero deve andare a chi ha contratto il virus e a chi si prende cura dei malati, operatore sanitario o familiare che sia. Ci sono motivi di fiducia sulla possibilità di superare la malattia e sul contenimento della sua diffusione, se tutti saremo responsabili con i nostri comportamenti.
Il pensiero va anche a quanti sono provati dalle restrizioni introdotte in tutte le attività, dalla scuola al lavoro e alla vita sociale ed ecclesiale. Dobbiamo aiutarci in questo temporaneo cambiamento di abitudini. Dobbiamo soprattutto aiutare i bambini e i ragazzi, messi alla prova, insieme alle loro famiglie, da un ritmo di vita a cui non sono abituati, senza dimenticare gli anziani e le persone sole.
Una cosa dobbiamo subito dirci, e cioè che l’epidemia finirà; non possiamo dire quando, ma finirà. La domanda è: come dobbiamo attraversare questo tempo fino a quel punto? E poi anche: come ci troverà quel punto quando arriverà, come saremo quando sarà tutto finito? La risposta dipende dal nostro senso di responsabilità e dalla nostra disponibilità.
Le prescrizioni cautelative si muovono tutte, necessariamente, in senso contrario al bisogno umano fondamentale di incontro, di scambio, di unione, di vicinanza, di prossimità, di intimità. Abbiamo bisogno gli uni degli altri, e perciò di cercarci e di incontrarci; abbiamo bisogno di accoglienza reciproca, di legami comunitari, di contatto, perché attraverso il contatto passa il flusso delle emozioni e dei sentimenti, l’esperienza del voler bene e dell’essere voluti bene, la gioia e la forza per affrontare la vita, passa perfino il rapporto con noi stessi e la nostra autocoscienza.
Tutto questo è ora sottoposto a limitazioni e proibizioni. Dobbiamo tenere un distanziamento sociale con tutti, ma il distanziamento non è un mero fatto meccanico e funzionale; il suo significato e i suoi effetti sono molto più profondi della convenienza igienica e sanitaria al cui scopo è stato disposto. Soprattutto dobbiamo ammettere che il contatto non è solo positivo e produttivo, può anche diventare canale di trasmissione di un contagio. Il male ti colpisce proprio là dove attingi il bene, svelando l’ambiguità della nostra condizione umana. Ne prendiamo atto e cerchiamo di discernere la verità e la bontà delle nostre scelte quotidiane.
Abbiamo bisogno di contatto e di incontro, ma si rende temporaneamente necessario distanziarsi. Questa necessità deve diventare un’occasione per reimparare ad apprezzare il bene della famiglia e dello stare insieme, dell’incontro e dello scambio, dell’amicizia e degli affetti, per prepararci a coltivarlo e a viverlo meglio, a fronte di una abitudinarietà che rischia di farcene perdere il senso e la qualità. L’attesa di una rinnovata e serena esperienza di prossimità e di effusione degli affetti affini la purezza e l’apprezzamento del dono, e approfondisca l’intensità e l’apertura dei nostri sentimenti e dei nostri legami.
La nostra esperienza cristiana non è esentata dalle conseguenze di quanto stiamo vivendo. Anche la fede vive di contatto e di incontro, vive grazie ai sensi, che ci fanno udire, vedere, odorare, palpare, gustare. Il momento più alto per la nostra fede è un momento di contatto per eccellenza – culmine e fonte –, l’evento celebrativo in cui si mangia e si beve, si gusta e si assimila il Corpo del Signore, dopo averne ascoltata la Parola, per diventare una cosa sola con Lui e tra di noi: riceviamo il suo Corpo (eucaristico) per diventare suo Corpo (ecclesiale). Nell’Eucaristia celebrata e ricevuta attuiamo il memoriale della Pasqua e si rinnova per noi il mistero pasquale di morte e di risurrezione di Gesù come dono d’amore che si trasforma in vita eterna. Nel sacramento dell’altare riceviamo il cibo divino che ci dà la forza per camminare nella vita e crescere sia nell’unità e nella comunione tra di noi sia nella capacità di dono e di servizio ai fratelli; in esso pregustiamo il banchetto eterno alla cui mensa speriamo di sederci nella pienezza di comunione della Trinità divina.
Di tutto questo ora siamo costretti a privarci per un certo tempo. Come viverli, questo tempo e questa privazione? I ritmi della vita sociale si sono rallentati e noi avvertiamo una sensazione di sospensione, di disorientamento, di smarrimento quasi. In questa situazione si può perfino essere tentati di deprimersi, di lasciarsi andare all’inedia, particolarmente quelli che già soffrono una condizione di solitudine e di abbandono.
Il dramma della vita oggi si presenta nella forma di una epidemia che incombe su tutti; lo affrontiamo coltivando la volontà di vivere bene anche un tempo come questo. Anche questo è un tempo di Dio, un tempo che Dio ci dà per ascoltarlo e seguirlo. Sarà un tempo privo ma non per questo necessariamente vuoto: un tempo privo dell’Eucaristia deve diventare ancora di più un tempo pieno di Dio, a cominciare dal desiderio che, in questa assenza di Eucaristia, si fa ancora più forte. Come fare per coltivare tale desiderio e per fare spazio a Dio?
Tornano opportune in queste circostanze due serie di indicazioni, la prima del Vangelo, la seconda dal ministero di Cristo e della Chiesa, in un intreccio vitale che ci conferma nell’orientamento che vogliamo dare al nostro cammino di fede e al nostro cammino di Chiesa. Le tre indicazioni evangeliche sono quelle della pagina di Matteo posta a manifesto della Quaresima nella celebrazione del mercoledì delle Ceneri: elemosina, preghiera, digiuno; le seconde sono le dimensioni costitutive della nostra vita di Chiesa e del nostro impegno pastorale: l’ascolto della Parola, l’offerta a Dio nella preghiera (piena nella liturgia e con i sacramenti), la carità fraterna. Accostando le due triadi, viene da osservare che a rimanere fuori dalla corrispondenza è il digiuno, che in realtà costituisce la nota peculiare di questo tempo senza Messe, perché invita alla purificazione penitenziale che rende il nostro cuore sempre più disponibile al dono del Signore.
È grave essere privati dell’Eucaristia, ma nella sua privazione forzata possiamo prendere coscienza che è non meno grave averla trattata tante volte come una abitudine e ricevuta con superficialità. Viviamo questo tempo come uno scuotimento, un brusco risveglio, di fronte al rischio e alla tentazione della banalizzazione dell’Eucaristia. Questo è un tempo propizio per ridestarci da una fede sonnolenta, tentata dallo scontato e dall’ovvio, bisognosa di recuperare il senso della sua grandezza e bellezza, della sua gratuità e della preziosità del suo dono. Non dobbiamo distoglierci dal senso della mancanza, dobbiamo piuttosto scavare in esso, perché dallo stordimento delle molte cose passiamo ad un rinnovato ardore del desiderio.
Questo può diventare un tempo fecondo se sapremo approfittarne per fare spazio al silenzio, alla riflessione, alle relazioni personali. Il silenzio è vitale per il respiro del nostro spirito, ma anche per l’equilibrio della nostra interiorità; uno spazio maggiore per esso è capace di ridare tono al nostro sentire profondo, alla percezione del senso della vita e di tutto ciò che la nutre e la fa crescere. Un silenzio non vuoto, ma pieno di una presenza che abiti pensieri e sentimenti, la presenza di quel Dio di amore che in Gesù ci sostiene e protegge sempre, anche in mezzo ai passaggi più difficili della vicenda personale e sociale. È il silenzio del deserto quaresimale che predispone al silenzio dell’intimità e dell’unione con Dio.
La riflessione deve essere aiutata a elaborare il nostro cammino di vita in un frangente storico nel quale ritorna prepotente la sensazione e, soprattutto, l’esperienza della precarietà umana. Il mondo globalizzato ci si schiude con la complessità e l’ambiguità della sua configurazione, perché l’interconnessione e lo scambio senza limiti delle informazioni, come delle persone e delle merci, si presentano come una potenzialità illimitata di crescita e di sviluppo, ma nello stesso tempo come possibile minaccia in presenza di un virus che entri nel circuito della comunicazione interumana. Il senso della nostra fragilità si presenta sotto una nuova veste e chiede di non essere mai perduto di vista nella costruzione del nostro vivere sociale. La coscienza di non potere dominare tutto e che siamo esseri finiti ci rende più umani, illumina la riscoperta di essere figli, di ricevere tutto dal Padre e di avere da Lui il mandato di fare di questo mondo un giardino e della nostra umanità una famiglia. Abbiamo bisogno di conferire nuova linfa al desiderio e alla missione di Gesù di suscitare vita e di moltiplicare vita; perciò ne vogliamo accogliere la Parola e seguire fedelmente il cammino.
La solidarietà e la fraternità le riscopriamo più facilmente quando siamo sotto una comune minaccia; allora sentiamo forte il bisogno di stare uniti e di aiutarci a superare le comuni difficoltà. In tempi di distanziamento sociale, dovremmo sentire ancora più urgente l’esigenza di incrementare la qualità della solidarietà e della fraternità, e di affinare l’attenzione verso chi è più debole e solo. Possono essere riscoperti lo stare in famiglia, il dialogo pacato, la condivisione dell’esperienza della vita. Quanto ai poveri, aumenteranno durante questa epidemia, come aumenteranno i bisogni di aiuto nelle situazioni e per motivi molto diversi tra loro. Risuoni per noi l’appello ad aprirci a una riscoperta cordiale generosità. Non serve a nulla, e non aiuta, vivere solo preoccupati della propria sicurezza e tranquillità. Insieme superiamo meglio i pericoli che corriamo tutti; se ci aiutiamo, usciremo meglio e prima da questo periodo di prova e di minaccia.
Ai presbiteri dico che sono sospese le celebrazioni ma non la cura pastorale. E anche per le celebrazioni, non deve mancare quella personale, senza popolo, di ciascun presbitero ogni giorno di questo tempo, per tenere alta la fiamma che arde al cuore della Chiesa. La cura pastorale è chiamata a privilegiare alcune forme, tra le quali spiccano quelle di carattere più personale. Questo tempo diventa propizio per le confessioni, per i colloqui spirituali, per gli incontri personali volti alla richiesta di chiarimenti, di riflessioni e di confronto, di catechesi e di formazione personale. Sempre con le dovute cautele e in presenza di specifiche richieste, anche le visite alle famiglie devono essere mantenute.
È il momento di valorizzare le nuove forme della comunicazione e dello scambio attraverso il web e i social media, che permettono di raggiungere tanti, senza tuttavia ricadere in una variante del solito attivismo frenetico. Costante deve essere l’invito alla preghiera personale e all’ascolto della Parola di Dio. Far conoscere l’ora in cui il parroco celebra può essere l’occasione per invitare a mettersi in preghiera alla stessa ora nelle proprie case, per alimentare quel bisogno di Eucaristia che, frustrato in questo tempo, prepara una celebrazione tanto più vera quanto più ardentemente attesa e desiderata. Particolarmente utile potrebbe risultare la condivisione di una riflessione sulla Parola di Dio del giorno e in particolare della domenica. Questo è anche un tempo in cui presbiteri e diaconi per primi devono dedicare una attenzione maggiore alla cura spirituale di sé, alla cura della propria anima.
Queste esigenze valgono, con le differenze del caso, per tutti i fedeli, che hanno la possibilità di utilizzare diversamente il tempo di solito riservato alla partecipazione alla vita parrocchiale. Una cosa che può essere fatta è, per esempio, la visita o una sosta di preghiera in chiesa. Non venga meno, soprattutto, il servizio della carità, che comincia in famiglia e tra i congiunti, ma che deve proseguire nell’ambito del vicinato e delle relazioni interpersonali, come pure attraverso le strutture delle Caritas parrocchiali e di quella diocesana.
È una Quaresima strana quella che stiamo vivendo, per certi versi più efficacemente tale per la ‘privazione’ a cui ci vede sottoposti e per tutte le preoccupazioni che ci angustiano. Ancora una volta è la fede ad essere messa alla prova; prendiamo questo tempo come una occasione per renderla più forte e per unirci di più al Signore nostro Gesù e tra di noi. Accogliamone la sfida e accresciamo la fiducia. Da questo tempo e da questa prova usciremo fortificati, più maturi, più fraterni”.