Festival del Calcio Italiano, Delio Rossi si racconta: “Così inizia la mia carriera tra i grandi…”

Per la XIII edizione del Festival del Calcio Italiano, viene presentata una nuova rubrica dal titolo: “I protagonisti del calcio si raccontano” e non poteva esserci un inizio migliore se non mister Delio Rossi, intervistato da Gianluca Atlante:

Delio, la Lazio di oggi con Baroni, assomiglia alla tua Lazio, quella della Champions e della prima coppa Italia dell’era Lotito?

Non conosco Marco (Baroni, ndr) ma non posso fare un parallelo tra questa Lazio e la mia. Arrivai da signor nessuno, al primo anno dell’era Lotito, e c’era un esigenza diversa: quella Lazio veniva dopo quella dei Cragnotti e non era facile prendere un’eredità facendo scommesse, prendendo dei giocatori nemmeno paragonabili alla vecchia scuola. Adesso è finito un ciclo, stanno rinnovando ma le situazioni sono diverse.

A seguito della seconda domanda di Atlante, legata al passato prestigioso del mister, Rossi comincia a parlare della sua carriera, dagli inizi fino a toccare il palcoscenico più alto d’Europa, la Champions League: “Ognuno ha la sua storia, io ho 64 anni, sono di Rimini, ho giocato a calcio fino a 28 anni, mi sono laureato, ho fatto un corso per andare ad insegnare educazione fisica nelle scuole ma non sono mai voluto andare. Mi piaceva questo mestiere, l’allenatore. Mi scrivevo tutto, tutto di Zeman quando lui allenava, ma volevo intraprendere questo percorso con i bambini e rimanere nel settore giovanile. Avevo passato molti anni al Foggia, c’era tanta fame di calcio lì in strada e non c’erano strutture. Volevo dare la possibilità a quei ragazzi di poterli portare dentro un settore professionistico. Non ho mai capito le dinamiche di questi settori: perché prendere chi può permetterselo e non è bravo e lasciare a casa chi è bravo ma non ha la possibilità? 

A 27/28 anni giocavo ad Andria, avevo problemi al ginocchio ma non volevo rubare soldi e tempo a chi stava meglio. Mi propongono di fare l’allenatore vicino Foggia, in una squadra di promozione. Chiesi garanzie anche a livello personale e accettai. Dovetti sostituire l’elettricista del paese e allenavo quattro volte a settimana più una sessione facoltativa, rispetto all’unica volta in cui la squadra si riuniva. Allenavo più volte al giorno, in base alla disponibilità dei ragazzi. Com’è finita? Nessuno ha mai saltato l’allenamento facoltativo, vinco un campionato e rimango, ma la mia idea rimane quella: fare l’allenatore del settore giovanile. 

A Foggia mi chiedono di entrare lì, e mi viene data la possibilità di allenare i giovanissimi regionali. Mi danno la squadra di un allenatore già in carica da qualche mese perché lui era in ferie. Rimasi senza squadra appena rientrò”. 

Sempre rimanendo legato ai suoi inizi, racconta alcune aneddoti interessanti:”Mandarono la domanda per farmi prenderi il patentino di seconda categoria al posto di Cangelosi, vice storico di Zeman, che ancora non aveva compiuto 30 anni. All’epoca c’erano diversi parametri da dover rispettare e io vi rientravo. Di ritorno da Coverciano, avevo il titolo più alto ma non avevo la squadra.

Mi viene così data la possibilità di allenare al NAG. Non c’erano fondi e addirittura ero costretto a dover rubare, nelle aree di sosta, i coni per poter far allenare la squadra. Dal NAG vado a finire in primavera. 

Nel frattempo Casillo aveva preso la Salernitana e cercava di toglierla dalla C per portarla in B. Dopo un anno e mezzo di primavera a Foggia, Casillo comincia ad avere problemi economici e giudiziari. Volevano togliergli la squadra. Mandarono me, ma sapevo l’esperienza sarebbe stata breve. L’atmosfera era surreale, non ci allenavamo né giocavamo in casa, non si poteva tornare a Salerno per la contestazione. 

Dalle esperienze pregresse, mi sono portato qualche giocatore, ne compriamo qualche altro e vinciamo la C. Siamo passati da una squadra con 1.000 persone al seguito fino a 40.000 abbonati in B. È qui che comincia la mia carriera nei grandi”.

Delio, sei sempre stato il prototipo dell’allenatore che ha tirato fuori il massimo dov’era impossibile: hai portato in finale di coppa Italia la Lazio e il Palermo dopo 32 anni. A quale delle due sei più legato?

“Chi si avvicina allo sport in generale, ma anche al calcio, non lo fa per diventare qualcuno, ma per passione. Mi sono sempre approcciato seguendo questo discorso, dai bambini alla Lazio. Penso sempre di allenare il Real Madrid (esempio, ndr), in ogni situazione. Questo rapporto l’ho sempre tenuto con tutti, con la gente e con i giocatori. Pensiamo sempre che la gente in curva sia poco intelligente, ma non è così: tutti vediamo la partita alla stessa maniera ma, al termine dei 90 di gioco, tu tifoso finisci dopo aver denunciato i vari problemi, di gioco e non e io, allenatore, è proprio da lì che inizio. 

La capacità dell’allenatore è proprio quella: far passare le proprie idee con i fatti, non con le parole. Devi saper allenare qualunque tipo di giocatore”.

Hai imposto un discorso di professionalità ovunque sei andato, ma hai detto no anche a tanti presidenti come Lotito e Zamparini che volevano tenerti e sei andato via. 

“Non è andata proprio così. Dico qualcosa di anacronistico: L’unica volta che ho preso un procuratore è stata l’ultima volta che ho giocato a calcio, non ho mai avuto nessuno che mi rappresentasse e mai l’ho voluto. Non avrei fatto il bene della società in cui sarei andato a lavorare. Con Lotito non è andata proprio bene, dalla Champions in poi abbiamo cercato di rinforzare la squadra ma non è andata. Abbiamo avuto opinioni diverse, quello che dico all’esterno è o per mandare un messaggio al pubblico o alla società”.

Prima di concludere, mister Rossi dà anche un quadro generale sulla situazione giocatori e sugli spogliatoi all’interno dei quali ha allenato: “I giocatori hanno tutti delle fragilità, nessuno di loro o di noi è un supereroe. Spesso i giornalisti parlano di leader negli spogliatoi, ma molti dei grandi non lo sono mai stati lì dentro. Il leader morale spesso è proprio colui che non gioca, più del leader tecnico”.