A volte ci giriamo dall’altra parte. Di fronte a un disagio, di fronte a un’ingiustizia, ad una stortura del senso delle cose, a qualcosa che ferisce lo sguardo o la coscienza. Perché il tempo e la voglia di fermarsi non c’è e perché la vita possa riprendere senza increspature o imbarazzi. Ma ci sono storie di fronte alle quali bisogna fermarsi.
Perché tornare a casa dopo aver partorito un figlio malato è affrontare un universo parallello, ingiusto, doloroso, significa piombare nel mondo sano con un fardello sovrumano da sostenere dopo mesi di ospedali, di impercettibili e faticosi passi, di dedizione assoluta e sfiancante, di responsi agghiaccianti di fronte ai quali restare saldi, di dolore centellinato ora dopo ora. E perché la sanità pubblica, così come è concepita in Italia, ha il dovere di certificare presenza, servizio, cura e di alleggerire questo carico. E dovrebbe farlo soprattutto nei casi come quello di Matteo.
Matteo. Ha il nome di mio figlio e di molti altri figli di questa provincia. Ha undici mesi, vive a Terracina ed è affetto da Sma 1, Atrofia Muscolare Spinale, una grave malattia genetica degenerativa che gli impedisce di camminare, mangiare e respirare in maniera autonoma. Ma condurre una battaglia contro tutto questo, che sarebbe già oltre per qualsiasi genitore, ancora non basta. Perché i suoi genitori hanno a che fare contro un mondo altrettanto duro e ostile: quello della burocrazia, delle porte chiuse, dei cartellini, dell’apatia fredda senza imbarazzo vestita da burocrazia. Matteo – lo racconta la madre – a causa di una grave crisi respiratoria, viene portato presso l’ospedale Bambino Gesù di Roma. Qui gli vengono praticati due interventi chirurgici, la tracheotomia per permettergli di respirare e la Peg per mangiare. Chi non sa cosa siano queste pratiche forse non vorrebbe mai saperlo, ma dovrebbe. Perché sono tecniche invasive che lasciano una ferita nel fisico e nell’anima. Perché nessun bambino al mondo dovrebbe subirle e quando succede perché è necessario, le famiglie in molti casi devono affrontare un duro percorso per accettarle.
Il 16 ottobre, il piccolo, viene trasferito in reparto dove viene curato e contemporaneamente vengono avviate le prescrizioni da inviare alla Asl per poter ottenere aspiratori, saturimetri, nutrizione, ausili medici vari, ventilatori che gli servono per respirare, e 6 ore di assistenza infermieristica. Nel gergo tecnico dell’inferno sanitario vengono definiti “presidi”, ma sono in realtà speranze travestite da macchinari. Macchine complesse che tengono in vita e che la Asl dovrebbe fornire in casa. Ma la Regione blocca la pratica e la Asl non eroga più fondi destinati all’assistenza sanitaria. Con la beffa di una ditta che chiama la madre per riprendersi i primi macchinari forniti. I problemi economici di una sanità inadeguata che fa fatica a stare in piedi con difficoltà note ma che non dovrebbero influire su casi come quello di Matteo. Perché qui parliamo di diritto alla vita e non solo alla cura e di diritto a condurla nelle condizioni migliori. E perché Matteo potrebbe continuare il suo percorso a casa se la Asl fornisse i presidi, come accade a tanti bambini più o meno fortunati di lui.
Questi genitori che hanno imparato a vivere tra dentro e fuori gli ospedali, tra dentro e fuori la malattia, tra dentro e fuori la normalità, hanno diritto a delle risposte certe ed esaurienti per il loro disagio. E i nostri amministratori hanno il dovere di comprendere che su casi come questo si gioca la dignità e il vero valore di un servizio, quello che può connotare come realmente civile una comunità. Senza burocrati e conti, senza scuse o alibi. Senza “faremo” o “vedremo”. Senza girarsi dall’altra parte. Perché Matteo sono tutti quei bambini e malati che non sono numeri, calcoli, rimborsi per i quali la speranza è un diritto e l’unica strada percorribile. Perché lo Stato travestito da enti e servizi non può mortificare il cammino di chi ogni giorno lotta per aggiungere un giorno ad un altro, di chi quotidianamente vive con quel coraggio e quella dedizione incrollabile che hanno i genitori di un figlio malato. Un figlio di tutti con un’assistenza per pochi, quella senza risorse e risposte che si ferma di fronte ad un caso difficile. E che sancisce la sua sconfitta (senza appello) e quella di una comunità.